Oggi, con grande divertimento, proverò ad affrontare una questione spinosissima, perché in aperto contrasto col sentire comune.
O meglio, con un luogo comune che aleggia sullo sport, e più specificamente sulla corsa. Si dice: correre fa bene. Affermazione che di solito porta con sé un corollario: se ci alleniamo con continuità e in modo non troppo intenso, saremo in forma smagliante sino all’ultimo istante della nostra esistenza.
E qui, già, i conti non tornano.
Correre fa bene, per una serie di motivi che tutti sappiamo e di cui abbiamo parlato chissà quante volte. La corsa tiene a bada peso corporeo, pressione arteriosa, colesterolo cattivo… Per non parlare dei vantaggi sull’umore. Tuttavia.
Tuttavia ci sono un po’ di cose da aggiungere.
Correre fa bene ma. E quel ma cresce all’aumentare dei chilometri. La corsa sulle lunghe distanze, c’è poco da fare, è traumatica per muscoli, tendini, articolazioni… E lo è ancora di più per noi amatori, che abbiamo un passo assai meno fluido dei professionisti. I nostri piedi pigiano per più tempo e in modo più goffo al suolo e, banalmente, stiamo molto più tempo sulle gambe a parità di distanza da coprire.
Eppure, noi che vogliamo così bene alle maratone (e qualcuno, anzi molti, alle ultra) facciamo finta di niente, anzi siamo fatalmente attratti proprio da quegli ultimi, dannati chilometri. Noi che corriamo, insomma, correremmo sempre di più.
Quindi?
Quindi, dov’è andato l’adagio secondo cui correre fa bene? E il corollario per cui una pratica continua ma blanda ci farebbe arrivare integri a novantotto anni?
Prendiamola da un altro versante. Leggere fa bene, vero? Ci rende più colti, consapevoli, acuisce il nostro senso critico oltre che quello estetico, eccetera. Eppure, ahinoi, più leggiamo più la nostra vista si deteriora. Ma c’è mai stato qualcuno che abbia pensato di leggere solo poche pagine a settimana, in modo da arrivare anziano con la vista di un quattordicenne?
E perché, allora, doversi limitare a un’attività fisica controllata, per garantirsi un’impossibile eternità? La prospettiva ci pare fallace per (almeno) due motivi.
Il primo motivo è che l’idea di arrivare alla fine della nostra esistenza in perfetta salute è una sciocchezza. Certo, è un’ottima idea quella di tenersi in forma psicofisica, così da affrontare al meglio, senza eccessivi affanni e dolori, l’ultima parte della vita. Ma dal momento che la consunzione prima, e la fine dopo, sono fisiologiche, perché preservarsi? Va da sé, non sarebbe sensato consumarsi anzitempo (anche se su questo ci sarebbero molte e profonde cose da dire), ma nemmeno vivere nell’ansia di deteriorarsi. Intanto, l’immortalità ci è comunque preclusa. Perché invece non arrivare all’ultimo istante sfibrati, ma della stanchezza sana di chi ha cercato di fare ciò che gli è piaciuto alla massima intensità possibile?
Secondo motivo. Crogiolarsi al fuoco della frase “Correre fa bene” ci continuerà a mostrare solo un lato, parzialissimo, della corsa. Quello tutto sgargiante, fatto di frasi motivazionali e selfie condivisi sui social, frequenza assidua alle gare per il solo gusto di collezionare medaglie e pettorali, monitoraggio ossessivo di ritmi e calorie…
Ma correre è anche, soprattutto, altro. È un esercizio di fatica e concentrazione che ci mette al cospetto della zona più oscura del mondo e di noi stessi. Correre, insomma, ci fa bene e ci fa male, eppure (confessiamolo!) non possiamo fare a meno né dell’una né dell’altra conseguenza.
Correre è esplorare il mistero, che se può entusiasmare può anche riempire di sgomento o suscitare domande senza risposta. Proprio come, per tornare all’esempio di prima, la migliore letteratura.
Perciò: buone letture, buone corse.
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