Non sto a raccontarvi la celeberrima favola di Esopo La volpe e l’uva, una delle più belle e proverbiali che siano mai state scritte.
La favola dimostra come gli umani tendano a denigrare ciò che non riescono a raggiungere. Oppure ciò che reca loro danno per manifesta superiorità.
Uscendo dal piano metaforico e scoprendo le carte, a distanza di parecchi anni devo fare ammenda. E ammettere che sì, ero anche io tra quelli che detestava, o meglio fingeva di detestare, Franco Baresi. Soprattutto le volte che il Kaiser, con la sua mitica maglia rossonera numero 6 (numero che, peraltro, dopo che Baresi smise di giocare venne ritirato – e fu con lui che si inaugurò l’usanza), ha calcato il campo di Marassi contro la mia Sampdoria, e io ero in gradinata a vedere quel Milan quasi invincibile. E quel tizio con la casacca fuori dai pantaloncini e la fascia da capitano, tanto disordinato nella capigliatura quanto elegante e millimetrico negli interventi.
È giunta l’ora di dirlo: Franco Baresi è stato uno dei più forti calciatori della storia. E molto probabilmente il più grande difensore che abbia mai giocato a football.
Celebra Franco Baresi un volume, Libero di sognare, uscito per Feltrinelli nel settembre del 2021 (e presentato come autobiografia, nonostante Baresi si sia avvalso della collaborazione di Federico Tavola).
Il libro ripercorre cronologicamente la vita e le maggiori imprese sportive del fuoriclasse. Ogni capitolo inizia con un breve inserto in corsivo che ci riporta a Pasadena il 17 luglio del 1994, ovvero al giorno della finale del Campionato mondiale, che l’Italia giocò contro il Brasile.
Tralasciando come andò a finire (per Franco Baresi e per la Nazionale tutta), ricordiamo che il capitano si ruppe il menisco nella seconda partita della fase a gironi, giocata contro la Norvegia. Subito operato, Baresi tornò in campo – contro ogni più roseo pronostico – dopo soli venticinque giorni, proprio in occasione della finale, che disputò giocando una delle partite migliori della sua carriera.
E così, in Libero di sognare possiamo leggere dell’infanzia dei fratelli Baresi (il più grande, Beppe, giocò per sedici anni nell’Inter) a Travagliato, nella campagna bresciana.
I primi calci nella squadra del paese, che sfornerà diversi giocatori di una certa fama. E poi la chiamata al Milan, l’esordio in prima squadra del 1978 (Baresi vi giocherà sino al 1997, e dal 1982 – quando aveva solo ventidue anni – ne diventerà il capitano), la reverenza verso Gianni Rivera, suo idolo di gioventù, che smetterà di giocare l’anno dopo l’inserimento del Kaiser tra i titolari.
Baresi racconta la crescita del Milan sotto la presidenza di Berlusconi e la guida di Sacchi. Non dimenticando tuttavia il ruolo fondamentale di Liedholm, tra i primi ad abbandonare l’idea di trattare il libero come l’ultimo uomo avulso dall’azione.
Sono ricordati tutti i trionfi di una delle squadre più forti di sempre. Baresi elegge la semifinale di Coppa dei Campioni (che bello quando ancora si chiamava così) contro il Real Madrid, giocata a San Siro il 19 aprile del 1989, come la migliore mai giocata da quella squadra. “Alla fine vincemmo 5 a 0. Non smettemmo mai di attaccare. Fu la partita perfetta”, p. 90.
Con grande onestà, Baresi cita come macchie indelebili due episodi poco limpidi della storia sportiva rossonera. Il primo, un pallone non restituito all’Atalanta durante la semifinale di Coppa Italia del 1990, che portò i milanisti al gol (segnato proprio da Baresi su rigore) e i bergamaschi a un’eliminazione ingiusta. E soprattutto la poco felice “fuga” dal campo di Marsiglia durante i quarti di finale della Coppa dei Campioni del 1991, in seguito allo spegnimento (temporaneo) di uno dei quattro riflettori dello stadio.
Ma quello che Franco Baresi tace, nonostante noi calciofili la ricordiamo come la più spiccata peculiarità del grande difensore, era la sua capacità di prevedere le azioni, di intervenire sempre con una puntualità ai limiti della telepatia.
Baresi ne parla quasi svagatamente in un capoverso di p. 61: “Durante e dopo la mia carriera molti hanno riconosciuto la mia capacità di anticipare le mosse degli avversari, di saper leggere l’evoluzione del gioco prima degli altri. Quando me ne hanno chiesto ragione, ho sempre abbozzato un timido sorriso, non per umiltà, ma perché io per primo non conoscevo la risposta. Mi veniva naturale”.
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