Ogni podista ha, permettetemi di forzare un po’ il significato della parola, i propri miti.
Oggi molti di noi guardano con visibilio alla tecnica di corsa pressoché perfetta di Eliud Kipchoge. Altri si sono invaghiti della falcata scomposta di Emil Zátopek, da cui traspariva tutta la sua sofferenza.
Poi ci sono mitologie che mettono d’accordo più o meno tutti, perché affondano le radici in un passato incerto. E nelle cui fonti, spesso contraddittorie, non è sempre facile distinguere le notizie vere da quelle create (o ingigantite) ad arte.
Ma in fondo il mito, anche nel suo significato più stretto, funziona esattamente così: si tratta, dice il vocabolario Treccani, di una “narrazione fantastica tramandata oralmente o in forma scritta, con valore spesso religioso e comunque simbolico, di gesta compiute da figure divine o da antenati (esseri mitici)”, corsivo nel testo.
Se il primo mito podistico, in ordine cronologico, è quasi certamente Fidippide (più noto come Filippide; e no, dai, non fateci ripetere la storia dell’origine della maratona), ventiquattro secoli dopo un altro tizio ha fatto di tutto per – è proprio il caso di dirlo – ricalcarne le orme.
Stiamo parlando di Carlo Airoldi, un signore nato a Origgio, in provincia di Varese, nel 1869, il quale un giorno decide di partecipare alla maratona dei primi Giochi olimpici dell’era moderna, che si sarebbero svolti ad Atene nell’aprile del 1896.
Fin qui, tutto bene. Tranne la bizzarria del prima e del dopo. Ossia del modo in cui Airoldi pretende di raggiungere Atene, e di ciò che gli accadrà una volta arrivato al Comitato d’accoglienza dei Giochi.
Ce lo racconta Gianni Agostinelli ne Il trucco è resistere. Vita e imprese di Carlo Airoldi, ultramartoneta, uscito per Piano B nell’agosto del 2021.
Il volume ripercorre, saltando su e giù per i piani temporali (e saltando anche – espediente narrativo di cui ci sfugge un po’ il senso – dalla prima alla terza persona), la vicenda di Carlo Airoldi. Stavamo per scrivere “la vicenda umana e sportiva”, ma ci siamo resi conto che nel caso di Airoldi i due aspetti sono pressoché sovrapponibili.
Airoldi, operaio in una fabbrica di biciclette, è un giovanotto tanto semplice quanto determinato, che scopre un’eccezionale attitudine alla corsa sulle lunghe distanze.
Nell’immaginario di tanti podisti non sono rimaste impresse le svariate gare estreme, nazionali e internazionali, vinte da Carlo, ma la sfida lanciata a Buffalo Bill. Anzi, ai suoi cavalli: Buffalo Bill si trovava in Italia, Airoldi avrebbe voluto scommettere con lui che avrebbe vinto in una gara sui duecento chilometri di distanza, a piedi contro l’americano a cavallo. Ma quest’ultimo ha clamorosamente rifiutato, chiedendo di poter contare non su un cavallo ma su due.
Il libro di Agostinelli restituisce bene una personalità pervicace sin quasi all’ossessività. Basti pensare – così sveliamo almeno uno dei due segreti (di Pulcinella) a cui abbiamo accennato – che per raggiungere Atene Airoldi si è messo in marcia a piedi, supportato dal giornale La Bicicletta, che avrebbe regalato ai suoi lettori periodici resoconti del folle itinerario dell’ultrarunner ante litteram. E, perdonate la divagazione, i pezzi di giornale dell’epoca – con l’uso di un italiano impeccabile, sempre in punta di preziosismo – ci hanno procurato grande godimento.
Ora dovremmo darvi conto di cosa mai sia capitato ad Airoldi al momento di iscriversi alla maratona olimpica di Atene. Ma, nel caso in cui anche solo uno dei nostri lettori non lo sapesse, preferiamo non rovinarvi la sorpresa e rimandarvi al gustoso libro di Gianni Agostinelli.
La vicenda è peraltro ribadita nell’articolo che Gianni Brera scrisse per Il Giorno del 4 novembre del 1956, e che troverete in coda al volume.
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