Duole, cari lettori, tornare su un argomento un po’ noioso, proprio adesso che è iniziata l’estate e la nostra mente è istintivamente portata al cazzeggio, ai romanzi Urania (ma si leggono ancora, i romanzi Urania?) e al sudoku.
Il fatto è che mi sono nuovamente infortunato. Non dovrebbe trattarsi di un qualcosa che preveda tempi di recupero biblici e consulti incrociati di frotte di medici, come mi era capitato tempo fa. E come, poveri voi, vi ho raccontato con dovizia di particolari.
Il mio piccolo guaio riguarda il bicipite femorale destro, e con qualche (per me lunghissimo) giorno di riposo dovrebbe tornare tutto a posto. Ma questo acciacco (ora vi racconto cos’è successo), mi ha suscitato qualche considerazione, che mi va di condividere con voi.
Lo devo ammettere, benché in ritardo. Il bicipite femorale destro mi pungeva già da qualche uscita. Tuttavia, negli allenamenti prima del disastro, ho corso a ritmi non sostenuti, dopo qualche chilometro la puntura spariva, e io facevo finta di niente.
Male, certo, perché un dolore che si presenta sempre nel medesimo punto, specie se non si è più ragazzini, qualcosa significa.
E così mercoledì scorso, avevo da correre le ripetute sui 400 metri, la mia ingordigia mi ha mostrato il conto. Corro la prima ripetuta, ed ecco la puntura. Corro la seconda, la puntura aumenta e sono davanti a un bivio: rientrare o proseguire? Figurarsi. Secondo la mia diagnosi autoassolutoria, il problema consisteva nel fatto che il muscolo non fosse ancora abbastanza caldo. E così corro la terza ripetuta, il dolore si fa acutissimo, interrompo la ripetuta a metà. Rientro a casa camminando (e smoccolando), la mattina stessa mi visita il mio fisioterapista e la diagnosi non dà scampo: piccola lacerazione al bicipite femorale destro. L’entità è lieve e non c’è versamento: sette-otto giorni di stop e dovrei tornare come nuovo.
Ma tant’è, l’ingordigia, l’incapacità di accontentarsi, ha avuto ancora una volta la meglio su un signore di quarantotto anni che, in teoria, dovrebbe avere raggiunto una certa maturità e capacità di giudizio.
Ma ogni infortunio, mi piace pensarla così, porta con sé anche un piccolo insegnamento.
Senza scendere in particolari, l’estate per quanto mi riguarda è sempre il periodo più intenso dell’anno. E la corsa, indispensabile per ottenere le energie psicofisiche necessarie ad affrontare le giornate, è per me non semplice da incastrare tra i molti impegni.
Poi, all’improvviso, uno strappo al bicipite femorale ci ricorda che esistono gli imprevisti, che non siamo padroni del nostro tempo. E che, nonostante le nostre (metaforiche) corse per stipare il tempo a disposizione, ogni tanto ci viene imposto di rallentare. E quando questo avviene, va detto, non ci succede niente di irrimediabile. Anzi.
Senza facili moralismi all’insegna della wilderness, queste interruzioni della… centrifuga in cui siamo presi, aiutano a capire che buona parte di ciò che facciamo è davvero inessenziale.
Non credo di essermi mai occupato dei miei bicipiti femorali, in passato. Non credo di averli mai nemmeno nominati.
Più in generale, quanta poca attenzione diamo al corpo! Perché badare al corpo non significa semplicemente allenarsi, o mangiare cibi biologici. Chissà quanti fanno sport con il solo obiettivo di mostrare gli addominali in spiaggia, o comunque di assumere una fisionomia che possa titillare il proprio narcisismo.
Stare attenti al corpo dovrebbe invece metterci in una prospettiva di ascolto. Dovrebbe metterci nella disposizione d’animo di soddisfare le sue esigenze più e prima delle nostre (lo so che la frase suona un po’ paradossale, come se lui e noi fossimo due entità distinte).
E soprattutto, con pazienza e ironia, dovremmo accettare le sue richieste di rallentamento, gli inevitabili segnali di invecchiamento.
E buon sudoku a tutti!
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