Amici corridori, di tanto in tanto mi accade di svicolare dalla mia conclamata monomania, per parlarvi di volumi meritori che riguardano territori affini a quello della corsa sulle lunghe distanze.
È successo due lunedì fa con Vivere lo sport per crescere felici di Isabella Gasperini, risuccede oggi con Alzati e cammina. Sulla strada della viandanza di Luigi Nacci.
Uscito nel 2014 per Ediciclo, Alzati e cammina è stato riproposto nel novembre 2020 in edizione tascabile. Nacci, oltre che guida ambientale escursionistica, è poeta e scrittore. E insegnante. Isoliamo questa professione per liberarci subito dell’unico nostro dubbio nei riguardi di un volume che viceversa si segnala per l’incisività della scrittura, la trasversalità rispetto ai generi e un approccio assai onesto e impavido – dunque niente affatto consolatorio – nei confronti del cammino (o della viandanza, parola bellissima, desueta e giustamente amata dall’autore).
Il dubbio, dicevamo. Che riguarda una certa volontà di normare il corretto apprendistato del viandante, attraverso una fitta serie di suggerimenti che talvolta sfociano in autentiche richieste di esercizi. Il libro muove certamente su un piano metaforico, d’accordo, e gli esercizi di cui parla Nacci ricordano più da vicino gli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola che non i compiti di scolastica memoria. Però il lettore si trova comunque davanti a un paradosso: da una parte è attratto dalla scrittura di Lugi Nacci, che lo accompagna verso una spoliazione di sé, un abbandono delle sicurezze e delle comodità feriali, un dimagrimento dell’io, necessari al camminatore (così come a chi affronta la corsa con l’autentica volontà di scoprirne il suo nucleo pulsante) per avvicinarsi al fuoco del mondo, uniformarsi al suo battito, al suo ritmo.
Ma dall’altra il lettore avverte la figura un poco ingombrante dell’autore-papà, prodigo di consigli sulla strategie da adottare per diventare un buon viandante. Eppure, da poeta, Nacci avrebbe dovuto ricordarsi che – lo scrive Cesare Viviani – la poesia non ha interpreti privilegiati. E se il cammino, come la poesia, può condurre al confronto col limite, non c’è un modo migliore o una via più agevole. Ci sono ingredienti indispensabili, certo: l’ascolto, il coraggio, l’attitudine alle scelte assolute.
Per il resto, e il resto non è davvero poca cosa, Alzati e cammina è un libro vibrante di passaggi acuti, sorretto da uno stile sicuro, elegante e vivido allo stesso tempo, a tratti furioso, come accade agli iniziati e ai visionari.
Lontanissimo dai troppi manuali che vedono nel cammino (e nella corsa) uno strumento di autocelebrazione, il volume afferma semmai il bisogno di prendere commiato dalle consuetudini e delle certezze accumulate, per poter abbracciare la fatica e forse intuire, per lo meno intuire, il senso ultimo dello stare al mondo.
In una delle primissime pagine si legge una frase emblematica: “Lasciare la propria identità sull’uscio” (p. 11). È davvero l’amuleto che Luigi Nacci ostenterà con sapienza per tutte le centottanta pagine del libro, ricordando al lettore quale sia l’esito della viandanza: “alla fine perderai tutto, compreso ciò che chiami, incautamente, «io»” (p. 28).
In uno dei punti più memorabili leggiamo: “Questo non è un libro sul Camminare. Ripeto: non è un libro sul Camminare. È un libro sul cammino. La c maiuscola non c’è, perché le maiuscole sono legionari che portano il comandante in trionfo. Il trionfo è l’antitesi del cammino”, p. 45.
Ossessionati da impegni e scadenze, passiamo una quantità abnorme di tempo a contare quanto manca al prossimo appuntamento, al prossimo incontro. Mentre la viandanza è un’immersione totale, che non prevede punti di ristoro o altri in cui si possa riscuotere alcunché. Dunque: “Se vuoi farti viandante, devi smettere di contare”, p. 63.
E terminiamo con un’altra importante citazione, che ci ricorda come il cammino, al pari della poesia (e della corsa), non è certo un cursum honorum o un percorso di progressiva affermazione di sé ma, al contrario, una severa pratica all’ascolto del mondo, per la quale forse occorre sacrificare il proprio io: “Come il cammino, la poesia è un atto disinteressato, che scansa il potere, mira all’essenzialità, scava per trovare la parola che possa indicare il mistero al di là della siepe”, p. 95.
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